I Ninja tra Folclore e Realtà

di Lorenzo Fantoni

Narra la leggenda che il Principe Osu della dinastia Yamato fosse un ragazzo dal temperamento bellicoso e incline all’ira. Per tenerlo a distanza ed evitare guai suo padre, l’Imperatore Keiko, lo mandò lontano nella regione di Kumaso dove il giovane sarebbe probabilmente rimasto ucciso in una guerra con le tribù locali.

Tuttavia, invece di scontrarsi frontalmente con i signori della guerra locali, Osu si travestì da donna, attirò due capitribù in una imboscata e li uccise non appena ebbero abbassato la guardia con una katana nascosta. La parola “ninja” doveva ancora essere proferita dalla loro prima vittima, ma il loro mito stava già nascendo.

Insieme ai cowboy e pirati, i ninja sono probabilmente tra le figure più famose e utilizzate nel nostro immaginario e, esattamente come loro, l’immagine che ci è arrivata ha più a che fare con il folklore che con la storia. Ma al di là di ogni possibile accuratezza della ricostruzione, la figura del ninja è il classico esempio di qualcosa che deve funzionare “perché sì”. Come la spada laser di Star Wars, sono un archetipo che ricade sotto la “rule of cool”: la fascinazione del mito vince sulla realtà, non importa se in origine erano un po’ diversi o se non usavano certe tecniche, è tutto troppo figo per non crederci.

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Anche se i ninja sono soprattutto giapponesi, le origini della loro filosofia sembrano originare in Cina. Secondo le ricostruzioni i concetti su cui si basa l’attività di un ninja possono essere rintracciati nell’Arte della Guerra di Sun Tzu. Al suo interno viene infatti dato ampio risalto ai vantaggi che un regnante può ottenere dalle attività spionistiche e di guerriglia, spargendo disinformazione tra i nemici, sabotandone le infrastrutture e generando confusione e scoramento nelle truppe.

Queste tecniche iniziarono a diffondersi in Giappone intorno al decimo secolo e si consolidarono nell’arco di due secoli grazie all’arrivo sul territorio di monaci e generali cinesi che fuggivano dal continente, ma si scontrarono subito con il Bushido, ovvero la filosofia di vita e militare del Giappone.

Il Bushido è una sorta di codice cavalleresco occidentale, ma applicato ai samurai; si basa su onore, rispetto, compassione, lealtà, sincerità, tutti valori che non coincidono in alcun modo con le pratiche di un assassino che colpisce nell’ombra e mente per vivere. Ricorrere ai ninja era considerato un gesto disonorevole, ma la loro utilità tattica era tale da renderli indispensabili, dunque molti daymio si turarono il naso e li misero sotto contratto o crearono un loro esercito segreto.

La scarsa voglia di pubblicizzare questo genere di attività e la generale discrezione dei ninja hanno reso molto difficile studiarne le tecniche, l’origine e l’influenza sulla politica giapponese. Spesso gli storici giapponesi non li nominano nei loro rapporti, quando lo fanno ne sminuiscono l’importanza oppure ne ingigantiscono le gesta, trasformandoli in essere sovrannaturali, magici e mostruosi, trasformandoli nei guerrieri leggendari che sono arrivati fino a noi.

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I ninja tuttavia non erano mostri o demoni, erano persone esistite veramente, semplicemente non giravano molto spesso vestiti di nero, soprattutto non di giorno. Secondo le poche informazioni raccolte gli shinobi, altro termine con cui venivano chiamati, erano spesso persone comuni che intraprendevano questa carriera perché non avevano niente da perdere o perché preferivano questa professione al fare il contadino. 


C’erano poi i ninja “di nascita”, ovvero gli appartenenti e vere e proprie dinastie di spie prezzolate con tanto di classi sociali. C’erano i più nobili, gli jonin, seguiti da chunin, loro luogotenenti, e infine i genin, ovvero i più umili, quelli a cui venivano affidati i compiti meno “nobili”.

Storicamente, le regioni a più alta densità di ninja erano quelle Iga e Koga i clan di queste zone venivano spesso impiegati come mercenari dai vari signorotti e non era poi così strano ritrovarsi a tagliare la gola al nobile che ti aveva pagato qualche mese prima per fare la stessa cosa a un suo rivale.

Il motivo per cui Iga e Koga avevano i ninja tra i prodotti locali è legato alla politica locale. Erano zone rurali relativamente libere da dominazioni locali che non gradivano l’autorità e per difendere questo status i villaggi si trasformarono in piccole accademie di autodifesa e, in seguito, di shinobi. Tuttavia, anche sotto questo punto di vista le fonti storiche contrastano col mito: pare che i ninja non ricevessero un addestramento marziale formale come lo intendiamo oggi, ma una serie di insegnamenti e tattiche di autodifesa che venivano tramandate in maniera disorganica, senza un codice vero e proprio come lo intendiamo oggi.

C’era tuttavia un elemento iniziatico, un rituale tramandato attraverso i secoli chiamato shugendo che prevedeva lunghissime camminate tra i monti e resistere il più possibile seduti sotto il getto di una cascata. Attività che non solo creavano uno spirito di corpo e scremavano i meno adatti, ma che di sicuro allenavano i discepoli a condizioni estreme.

In questo modo nasceva un ninja, ovvero una spia in grado di combattere, infiltrarsi tra le fila nemiche e raccogliere informazioni o eliminare bersagli strategici. Raramente un ninja vestiva col tipico travestimento nero preferendo abiti comuni da contadino, cortigiano o artista di strada. Quando entrava in azione il colore preferito era il blu scuro o il grigio. Qualunque soldato dei corpi speciali vi potrà spiegare infatti che il nero non è assolutamente il colore più indicato per agire di notte, si distingue troppo rispetto alle molte sfumature dell’oscurità.

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E le armi? Dimenticatevi le stellette da lancio, usate al massimo come coltelli non convenzionali nel combattimento ravvicinato, le armi di un buon ninja dovevano passare per strumenti di lavoro. Largo dunque a falcetti, bastoni, strumenti agricoli o, eventualmente, flauti che potevano diventare cerbottane. Erano tuttavia presenti anche delle katane di media lunghezza nascoste nei bastoni, gli shuko, artigli da arrampicata e i tessen, ventagli con lame affilate.

Per prevenire l’attacco dei ninja i daimyo adottavano alcuni accorgimenti all’interno dei loro castelli. Pavimenti pensati per fare rumore, sorveglianza stretta, controlli periodici per eventuali tunnel e passaggi segreti. Nella famiglia Tokugawa era fatto obbligo per tutta la corte l’uso di pantaloni molto ampi e lunghi che rendevano impossibile una camminata silenziosa.
I ninja prosperarono durante il periodo Sengoku (1467-1568) quando il Giappone fu insanguinato da una serie di lotte feudali che facevano ampio uso dei loro metodi. Bastava un ninja per aprire di notte le porte di un castello cinto d’assedio per consentire una facile vittoria.

Oggi nella zona di Iga l’eredità dei ninja sopravvive grazie alla forza del mito e alimenta una florida industria del turismo. Il Castello della Fenice Bianca di Hakuhojo è diventato una sorta di musei dei ninja, pieno di armi, costumi e spettacoli con attori che mettono in scena attacchi a sorpresa. C’è perfino un festival dei ninja ad aprile con parate e bancarelle di ogni tipo. Chissà se gli antenati approverebbero.

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